Introduzione
Castello
di Valleran
Un urlo
straziante riecheggiò dalla torre più alta del castello.
Marlok abbandonò
le posate sul tavolo.
«La Vecchia!»,
esclamò con gli occhi sbarrati.
Caterina lo
fissò, preoccupata, ma lui era già scattato in piedi, precipitandosi verso le
scale.
Quella donna
aveva salvato sua moglie e suo figlio. Senza l’intervento della Vecchia, la sua
vita non avrebbe ritrovato la serenità che gli era stata rubata con l’inganno e
per quel motivo si era promesso di prendersi cura di lei fino alla morte.
Salì le scale
quattro gradini per volta e raggiunse presto la torre, dove la Vecchia si
ritirava per mescolare i suoi intrugli puzzolenti.
Appena varcata
la soglia, il volto di Marlok si deformò in una smorfia schifata: l’odore era
nauseante e il fumo che vagava per la stanza gli impediva di vedere
chiaramente. Avanzò di qualche passo e vide il corpo della Vecchia accasciato a
terra. Si avvicinò, agile, e la sollevò, portandola fuori dalla stanza. La osservò
attentamente: i capelli bianchi come il latte le contornavano il viso solcato
da rughe profonde. Nonostante il suo aspetto raccapricciante, non gli aveva mai
fatto ribrezzo e nutriva una sincera riconoscenza verso di lei.
La scrollò
leggermente, cercando di farla rinvenire.
«Vecchia!», la
chiamò. «Avanti, apri gli occhi!».
Nessuna
risposta.
La scosse più
violentemente e lei sobbalzò, sbarrando gli occhi completamente bianchi.
Marlok si
lamentò quando le unghie ingiallite della Vecchia si conficcarono nelle sue
braccia muscolose.
«Alla tua età, dovresti
smettere di fare questi intrugli schifosi!», la rimproverò.
La Vecchia emise
un gemito rauco e spinse le unghie più in profondità.
Lui sospirò,
sopportando il dolore:
«Avanti, calmati,
Vecchia! È tutto finito!».
«È appena
iniziato!», sussultò lei, balzando vicina al suo viso.
Marlok scosse il
capo, comprensivo: quella donna era sempre stata considerata una pazza per via
delle sue presunte visioni e per i suoi improvvisi e insensati cambi di umore, ma
lui aveva cercato di farla sentire a suo agio, sebbene non avesse mai finto di
credere alle sue stravaganze.
«Dovresti
riposare, anziché agitarti per nulla».
La Vecchia
sbuffò e lo fissò, cupa:
«Ascoltami!».
Gli afferrò il viso con le mani rugose. «L’altra metà del tuo passato sta per
tornare... e chiede giustizia...», biascicò, «...chiede giustizia... ma è mossa
dall’odio e dal rancore per i torti subìti... e sarà come un uragano che
spazzerà via la serenità...».
Marlok sospirò,
contrariato:
«Non c’è più
odio nel mio cuore per ciò che è accaduto in passato».
La Vecchia lo
scrutò intensamente e si avvicinò nuovamente al suo viso, alitandogli in
faccia:
«Saranno il cuore
e la mente di tuo figlio a essere preda di angosce: a breve qualcuno tramerà
contro di lui; sta per accadere un terribile avvenimento... e lui non sarà più
lo stesso».
«Riposati, Vecchia!».
Marlok allontanò il viso dal suo alito. «Ti porto nella tua stanza», affermò
scendendo le scale.
«Preferisco
morire fra le tue braccia», dichiarò lei, stanca.
A quelle parole
Marlok sorrise:
«Tu hai la pelle
dura! Non morirai!».
Davanti a quella
rivelazione lei sghignazzò per pochi istanti, poi il suo volto diventò teso e
impercettibilmente adirato.
«Sono io che
faccio le previsioni! Non tu!», strillò.
La voce acuta
della Vecchia perforò i timpani di Marlok, che la distanziò leggermente da sé,
sospirando pazientemente.
«Non credo alle
previsioni del futuro, dovresti saperlo, ormai!», affermò con tono solenne.
Lei sbuffò:
«Ci crederai
quando sarò morta, quando non sarò più qui per rispondere alle tue domande... e
in quel momento rimpiangerai di non avermi chiesto ora altre spiegazioni...».
Lui sorrise,
mentre apriva la porta della sua stanza.
«Tienimi stretta
ancora qualche minuto...», lo supplicò la Vecchia, poco lucida, avvinghiando le
esili braccia intorno al suo collo, «...non manca molto...».
Marlok
acconsentì.
«Non hai il
volto di chi sta per morire... ma hai salvato dalla morte mia moglie e mio
figlio, che era ancora indifeso nel suo grembo», ricordò con una punta di
emozione. «Farò quello che mi chiedi e ti sarò debitore a vita...», dichiarò,
fissandola negli occhi.
La Vecchia annuì,
compiaciuta.
«Per il futuro, ricorda almeno questo: non tutto
è come sembra», annunciò. Poi sospirò: «Il tuo debito, re Giacomo, finisce
qui... grazie...». In quel momento chiuse gli occhi, i deboli muscoli persero
quel poco di vigore che avevano e il suo corpo si abbandonò alle braccia di
Marlok.
Lui la fissò
sbigottito, scuotendola leggermente e avvicinando l’orecchio al suo cuore. Alzando
gli occhi incrociò quelli della moglie, che lo aveva raggiunto.
«Aveva
ragione...», considerò triste, «...sapeva che era giunta la sua ora...».
1
Il castello di Asserlay
«Forza, Alma!
Più veloce!». Celeste avvicinò il viso al muso della sua cavalla, incitandola
ad accelerare. Si guardò preoccupata alle spalle, scorgendo lo stallone nero
che le stava addosso e si rigirò agile sulla sella.
«Dobbiamo
seminarlo!». Gli occhi le luccicavano di determinazione; afferrò le briglie più
saldamente e fece forza sulle staffe, sollevandosi dalla sella e spingendosi in
avanti.
Il bosco si
stava diradando sempre di più, finché un’immensa pianura si affacciò innanzi a
lei, mostrando la fortezza di Asserlay.
«Ancora un
ultimo sforzo, Alma! Dobbiamo raggiungere il castello!», la incitò.
Dietro di lei,
lo scalpitare di chi la inseguiva diventava sempre più opprimente, ma il regno
era vicino e Celeste desiderava varcare il cancello.
Pochi metri, ormai,
la dividevano dalle mura di Asserlay, che era la sua dimora. Si voltò ancora
una volta indietro: l’aveva raggiunta.
Celeste si sentì
afferrare per il braccio, mentre lo stallone si affiancava alla sua cavalla,
costringendola a rallentare.
«Non puoi scappare
da me!», le disse Alessandro, sbilanciandosi verso di lei per rubarle un bacio.
A quelle parole
Celeste sospirò, con affanno.
«La prossima volta
non riuscirai a prendermi...», dichiarò, spavalda. Poi allungò le braccia,
allacciandole al collo del marito e scivolando sul suo cavallo.
«Oh, credo di
sì, invece...», dichiarò lui, «...farò di tutto per tenerti con me e non
perderti!».
Celeste indugiò
le dita fra i suoi ricci capelli neri e lo fissò intensamente negli occhi blu:
«Non voglio
scappare da te: sei il mio mondo, il mio rifugio, la mia casa».
Alessandro
scrutò i suoi grandissimi occhi, erano così particolari che ogni volta si
perdeva dentro di essi: verde smeraldo all’interno e di un verde sfumato più
chiaro ai margini. I capelli dorati le scendevano ondulati sul viso, liberi e
selvaggi come il suo spirito.
«Ti amo, Celeste!
Ti amerò per tutta la vita...», le sussurrò, baciandole le labbra morbide e
sensuali.
Intanto lo
stallone nero sul quale erano abbracciati si diresse verso l’entrata della
dimora, come se conoscesse da sé la strada di casa, seguìto da Alma.
Le guardie
aprirono il cancello e i due innamorati entrarono, ancora persi l’uno nello
sguardo dell’altra.
Raggiunte le
stalle reali, Celeste balzò giù da cavallo. La calzamaglia nera aderiva
perfettamente alle sue cosce snelle, mentre la camicia, che aveva rubato ad
Alessandro, le scendeva larga lungo i fianchi. Era la regina di Asserlay,
eppure, guardandola, nessuno lo avrebbe immaginato, a parte chi la conosceva
già.
Un uomo si fece
loro innanzi. Era vestito semplicemente, così da sembrare un comune servo. Il
colore castano dei capelli faceva contrasto con quello della barba dorata; sul
suo volto risplendeva un magnifico sorriso.
«Bentornati,
Vostre Maestà!», li salutò, felice.
Al suono di
quella voce, Celeste si voltò, raggiante:
«Buongiorno,
papà!». Si fiondò fra le sue braccia.
Ivan sospirò.
«Non dovresti
chiamarmi così...», la rimproverò, «...qualcuno, prima o poi, potrebbe sentirti
e sai bene che per tutti sei la figlia del defunto re Umberto». La scostò
leggermente dal suo petto: amava essere chiamato papà, ma era un uomo prudente e desiderava che la figlia
continuasse a essere felice per tutta la vita.
«Hai ragione», ammise
lei. «Sono felice che tu sia al mio fianco, a palazzo», gli disse, senza
perdere l’intesa con i suoi occhi.
Ivan sorrise: l’amore
che sentiva per sua figlia gli riempiva il cuore di tenerezza e colmava tutto
il dolore che aveva dovuto sopportare in passato per la perdita della sua amata
Margherita. Pensò che Margherita sarebbe stata orgogliosa della loro figlia:
nonostante tutti i soprusi subìti, Celeste era riuscita ad avere la vita che
desiderava, accanto all’uomo che amava. Era convinto che anche la sua amata era
in pace e sentiva spesso il suo sguardo velato su di lui. Era una presenza che
non lo abbandonava mai.
«Ci sarò sempre,
per te...», sussurrò commosso a Celeste.
Lei gli scoccò
un bacio sulla guancia e gli sorrise:
«E io per te».
Ivan la guardò allontanarsi
insieme al suo sposo. Era trascorso quasi un anno dal loro matrimonio e quel
periodo era stato di una felicità inimmaginabile. Dopo tutto ciò che era accaduto,
finalmente Alessandro e Celeste si godevano quella serenità che non sembrava potesse
mai appartenere loro.
Sotto la guida
dei due sovrani, il regno era diventato fecondo, ed erano stati risanati quasi
tutti i debiti del rovinoso regime di re Umberto. I contadini avevano ripreso
fiducia e lavoravano contenti, con grandi vantaggi per loro stessi e per tutto il
regno.
I pensieri di
Ivan furono disturbati dal rumore di una carrozza, che si era fermata davanti
all’ingresso del castello. Riconobbe il cocchio all’istante.
«È arrivato
Marlok!», esclamò.
A quell’annuncio
Celeste e Alessandro cambiarono direzione, contenti della notizia.
Marlok e sua
moglie Caterina scesero dalla carrozza senza tanti cerimoniali: fra le mura di Asserlay
c’erano le persone a loro più care.
Lui era un uomo
di circa quarantacinque anni, dall’aspetto elegante e dal fisico estremamente
muscoloso. Aveva lunghi capelli grigi, che gli scendevano lisci fino alle
spalle, e un appariscente orecchino circolare faceva contrasto con il suo
portamento impeccabile.
Caterina era di
costituzione minuta: i grigi capelli erano attorcigliati al capo in modo
sofisticato, come si addice a una regina, e il suo vestito color smeraldo era
bellissimo.
Ventidue anni
prima re Umberto aveva espropriato il regno di Marlok, in realtà re Giacomo,
con l’inganno. Marlok aveva vissuto come un pirata per tanti anni, per poi
tornare a compiere la sua vendetta. Dopo tante peripezie, in cui Marlok ritrovò
la moglie creduta morta e un figlio di cui non conosceva l’esistenza, Umberto
fu ucciso. Celeste ereditò tutte le ricchezze di re Umberto, poiché era
riconosciuta come sua unica figlia: in quel modo diventò la sola erede di Asserlay
e di Valleran. Alessandro, figlio di Marlok, e Celeste si sposarono, coronando
il loro sogno d’amore e, per loro volontà, a Valleran ritornarono a regnare i
veri sovrani, così com’era giusto che fosse.
Il nome di re
Giacomo era stato dimenticato, ma a Marlok non dispiaceva: vivere con le
persone che amava era tutto ciò che desiderava. Inoltre, l’avventura per
riconquistare il suo regno e avere finalmente giustizia gli aveva fatto
ritrovare non solo il figlio che non sapeva di avere, ma anche dei veri amici,
che avevano condiviso con lui molto più di quanto ritenesse possibile.
Marlok osservò
suo figlio e Celeste avvicinarsi a lui, tenendosi per mano: voleva loro un bene
incredibile e avrebbe fatto qualsiasi cosa per proteggere la felicità che si
erano conquistati.
Notando il
gruppo, un soldato dai capelli color carota si spostò dalla sua postazione per
aggregarsi. Marlok lo salutò con la mano:
«Ciao, Michele!».
«Amico mio,
bentornato!», rispose lui con un sorrisetto.
Alessandro
abbracciò la madre.
«Prego,
accomodatevi!», li invitò.
Marlok scosse il
capo:
«No, siamo
passati solo per dirvi che è morta la Vecchia...».
A quella notizia
Celeste sussultò:
«Oh, per quanto
fosse avanti con gli anni, sembrava così invulnerabile... mi dispiace...».
«Già...»,
approvò Marlok, «...speravo che la morte non la volesse più, ormai. Che stupida
illusione!».
«Quella donna ha
salvato me e mia madre dalla morte, senza i suoi intrugli ora non saremmo qui a
parlare», considerò Alessandro.
«Resterà nei
nostri cuori per sempre», dichiarò Caterina, che era ancora assorta nei suoi
pensieri.
Ivan aveva
ascoltato la conversazione in silenzio: lui non aveva avuto modo di stringere
un rapporto stretto con la Vecchia, ma serbava per lei un profondo rispetto.
Marlok si
concentrò su di lui:
«Che ne dici di
un duello amichevole?».
Ivan ridacchiò:
«Non qui, però! Non
vorrei che qualcuno si insospettisse nel vedere quanto è profondo il legame che
ci unisce!».
Marlok alzò le
spalle:
«E tu lasciali
insospettire e parlare... nessuno potrà più minare la nostra felicità, ce la
siamo meritata fino all’ultimo pezzo!». Strizzò l’occhio a Celeste.
Lei sorrise. Suo
padre aveva compiuto l’impossibile per salvarla dal convento e permetterle di
crescere con lui, ma senza Marlok e Michele non avrebbe mai potuto farcela. Inoltre,
senza il loro aiuto, non le sarebbe stato possibile diventare la regina di Asserlay.
Alla fine, però, tutto si era concluso al meglio: Umberto e suo nonno Gregorio
erano morti e lei aveva ereditato entrambi i loro regni; Marlok e Caterina
erano potuti ritornare a Valleran, nella loro amata dimora.
Celeste osservò
quei tre uomini. La loro intesa era sorprendente: erano persone eccezionali, a
cui si sentiva legata da un profondo affetto.
«Ha ragione
Marlok», si intromise Michele. «Stai più rilassato... siamo tutti al sicuro!».
Gli diede una pacca sulla spalla.
Ivan sospirò:
«La prudenza non
è mai troppa! Qua siamo tutti amici... senza differenze fra servi e padroni...
temo che questo atteggiamento possa destare sospetti».
Marlok lo fissò,
pensieroso:
«Celeste e Alessandro
trattano bene chiunque... è il loro modo di essere sovrani! Loro sono...
diversi!». Squadrò Celeste, sghignazzando: «Guardate lei com’è vestita!».
Davanti a quell’osservazione
Celeste scrollò le spalle: ormai erano più i momenti in cui era vestita da
uomo, piuttosto che quelli in cui aveva un’aria da regina.
Anche a Ivan
scappò un sorriso.
«Il re è
Alessandro e nessuno oserà mettere in dubbio il suo modo di governare»,
aggiunse Michele.
«Sotto la mia
ala protettrice, Celeste potrà continuare a comportarsi come meglio crede; io
non la priverò mai della sua libertà», affermò Alessandro.
Lei sorrise.
«Be’, non potresti
farlo neanche se volessi...», lo punzecchiò.
Lui sospirò: era
tipico di sua moglie pensare di poter difendere la sua libertà e il suo spirito
con le proprie forze, sempre e comunque.
Marlok annuì:
«Un regno ha
bisogno della forza di un re e della sensibilità di una regina: voi due siete
un binomio formidabile, per questo va tutto così bene».
«È l’amore che
ci unisce a rendere tutto più facile!», affermò Celeste. Alessandro le strinse
la mano.
«Non dico che ci
sia qualcosa che non va bene...», si difese Ivan, «...dico solo che essere prudenti
non guasta mai!».
Caterina fu d’accordo:
«Ha ragione
Ivan: dobbiamo continuare a vegliare sui nostri figli, affinché continuino a
essere sempre così uniti e felici». Il suo volto, osservando i due giovani, si illuminò
in un sorriso.
«Allora, questo
duello?!», domandò Marlok, spazientito.
«Va bene...»,
acconsentì Ivan, «...inoltriamoci nel bosco del regno: lì saremo tranquilli».
«Celeste,
Alessandro, Michele, vi unite a noi?», domandò Marlok.
«Certo che sì!»,
rispose Celeste, entusiasta. Era sempre contenta di mantenere l’allenamento con
la spada e Marlok era il suo maestro preferito. Il suo primo insegnante era
stato il padre, che aveva assecondato i suoi interessi e le sue propensioni fin
da quando era piccola; poi, da quando aveva conosciuto Marlok, era stato lui a
seguirla negli allenamenti e l’aveva spinta a perfezionare la tecnica oltre i
suoi limiti. Saper usare la spada le aveva salvato la vita in più di un’occasione.
Marlok guardò la
moglie, che non gli permise di parlare.
«Non preoccuparti...»,
avvicinò l’indice alle sue labbra per zittirlo, «...mi farò preparare un tè da
Emma».
Lui le sorrise:
«Grazie, ci
vediamo più tardi». La attirò a sé per baciarla.
Celeste era sempre
affascinata dal loro amore: nonostante il destino, crudelmente manipolato da re
Umberto, li avesse tenuti lontano per vent’anni, si erano ritrovati e il loro
sentimento era più forte che mai.
Caterina,
imbarazzata, si staccò dal marito.
«A dopo, caro»,
lo salutò con gli occhi brillanti.
Il gruppo si
avviò oltre le stalle, dove c’era un grande bosco all’interno delle smisurate mura
del castello.
Tutti duellarono
contro tutti.
Ormai per loro
non era una novità battersi con Celeste e nessuno commetteva più l’errore di
sottovalutarla, soprattutto Alessandro, visto che la prima volta gli aveva
fatto volare via la spada con una facilità disarmante.
Marlok, da vero
maestro, la spronò a fare ancora di più. Si avvicinò e le legò un fazzoletto
sugli occhi.
Celeste scoppiò
a ridere:
«Che cosa stai
facendo?!».
«Devi imparare a
combattere senza la vista, in questo modo sarai costretta a utilizzare al
meglio tutti gli altri sensi», le spiegò.
«Ma se non
vedo... come posso parare i colpi?», si allarmò lei.
Alessandro sospirò:
suo padre tendeva sempre a esagerare. Si trattenne dall’intervenire.
Neanche Ivan
capiva il senso di quell’esercizio, ma era curioso di vedere come Celeste se la
sarebbe cavata.
«Non ci
riuscirai subito, Dolce Guerriera!», la ammonì Marlok. «C’è bisogno di tanto
esercizio per sviluppare gli altri sensi. Purtroppo tendiamo a pensare che la
vista sia il senso più importante... ma perché?! Non è forse come tutti gli
altri?».
Marlok sferrò il
primo colpo contro Celeste, che lo parò all’istante. Seguì uno scontro
incredibile, in cui lei non solo parava, ma attaccava continuamente, con una
precisione che aveva dell’incredibile.
Infine Celeste tolse
il fazzoletto dagli occhi e osservò gli sguardi sbigottiti di tutti, paralizzati
su di lei.
Nessuno osò dire
neanche una parola, la guardavano come se non sapessero più chi avevano di
fronte.
Davanti alle
loro facce esterrefatte, Celeste non riuscì a trattenere un risolino.
«Il fazzoletto
era bucato, proprio qui vicino all’occhio...», glielo mostrò, «...vedevo
tutto!». Esplose in una grande risata liberatoria.
A quella
rivelazione tutti si rilassarono e si aggregarono al suo divertimento.
«Comunque, in
qualche modo riesci sempre a stupirci, Dolce Guerriera!». Marlok scosse il capo,
incredulo. «Il fazzoletto bucato...», rise fra sé e sé, «...e io che pensavo che
non fossi umana...».
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