INCIPIT CELESTE: L'Ardore di una Donna


Introduzione

 

Re Gregorio ordinò:

«Uccidetelo e portate al castello quella stupida di mia figlia!». Se ne stava eretto sul suo cavallo nero; lo sguardo agghiacciante non lasciava trasparire alcuna emozione. Era un uomo molto robusto di circa quarant’anni: grigi capelli arruffati gli scendevano fino a un mento senza forma che nascondeva il collo.

Era il tardo pomeriggio di una giornata di fine estate.

Quattro soldati si avventarono contro un ragazzo che nascondeva dietro di sé una fanciulla.

Vicino ai due giovani c’era una piccola imbarcazione.

Stefano sguainò la spada per difendersi. Era un ragazzo di neanche vent’anni; la carnagione abbronzata faceva risaltare il verde degli occhi, che erano fissi sugli avversari. Il colore dorato della barba era contrapposto al castano scuro dei capelli, che gli scendevano lisci fino a coprire le orecchie. Era un combattente esperto, ma erano in quattro contro uno: troppi anche per lui.

Altri due soldati se ne stavano di fianco al re, aspettando il momento giusto per intervenire. Uno di loro era Michele, il migliore amico del giovane sventurato. Era un ragazzo della sua stessa età con i capelli color carota che gli coprivano parzialmente gli occhi azzurri.

Michele aveva cercato di persuadere il giovane dalla folle passione per la principessa Margherita, ma lui non lo aveva ascoltato. Stefano aveva trovato il vero amore e la più grande pazzia era rinunciare a esso; lui aveva amato più di quanto tanti possano fare in una vita intera.

L’altro soldato si chiamava Artur: era un uomo muscoloso, calvo e con una cicatrice sulla guancia. Eretto sul suo cavallo, cingeva la vita di una donna: era la dama di compagnia della principessa.

Mentre Stefano cercava di difendersi dai soldati, re Gregorio si rivolse alla giovane:

«Brava! Le tue informazioni sono state molto utili, non li avrei mai trovati senza il tuo resoconto tanto dettagliato».

Lei, sorridendo, rispose:

«Di nulla, Vostra Altezza! Ora che avete accertato la verità delle mie parole, dovete mantenere la promessa che mi avete fatto e presentarmi alla corte con un titolo nobiliare. Sono stanca di essere una comune serva».

Il re la invitò a scendere da cavallo, mentre rimirava il pugnale che aveva allacciato in vita.

«Certo!», rispose, divertito. Prese la fanciulla per mano e avanzò con lei di qualche passo, facendola volteggiare su se stessa davanti ai presenti. «Un attimo di attenzione!», proclamò ironico. «Vi presento la Contessa Traditrice!». Così dicendo le infilò il coltello nel ventre e la ragazza si accasciò a terra.

A quella scena la principessa urlò e cadde in ginocchio accanto all’innamorato, il quale, ormai, non aveva più neanche la forza per reggere la spada.

Re Gregorio si avvicinò a Stefano:

«Peccato... eri un ottimo capitano...». Alzò la spada per ucciderlo.

Fu in quel momento che intervenne Michele:

«Sire, permettetemi di dimostrare la mia fedeltà: sarò io a uccidere questo traditore!».

Lui lo guardò, incuriosito:

«Pensavo che foste amici...».

«Io non sono amico dei traditori! Inoltre, è da tempo che ambisco al ruolo di capitano!», dichiarò lui, spavaldo.

«Be’...», disse il re, «...se lo uccidi, prenderai il suo posto!».

Michele non se lo fece ripetere due volte. In un baleno fu innanzi a Stefano e lo disarmò, poi gli si avventò addosso, stringendogli il collo con la mano, e lo spinse dentro la piccola imbarcazione. Gli fu sopra con tutto il corpo ed estrasse un pugnale dalla lama affilata con una gemma rossa sull’impugnatura. Scrutò il suo amico fisso negli occhi, lo sguardo di ghiaccio, e Stefano capì perfettamente cosa aveva intenzione di fare. Fulmineo, Michele lo colpì al cuore; lui gemette e chiuse gli occhi, abbandonando il capo all’indietro.

Il soldato alzò il coltello, vittorioso, facendo vedere a tutti che era insanguinato fino all’impugnatura e, contemporaneamente, spinse la barca in mare con un calcio.

Margherita, straziata dal dolore, si buttò nell’acqua, cercando di raggiungere l’imbarcazione, ma Michele la fermò. Lei si rivoltò contro di lui, cercando di colpirlo con i pugni:

«Come hai potuto ucciderlo?! Stefano ti voleva bene! Eri come un fratello per lui! Che razza di uomo sei? Vigliacco!».

Michele incassò tutti gli insulti senza reagire.

Fu il re a intervenire. Afferrò la figlia per un braccio e la schiaffeggiò, guardandola severamente:

«Ricomponiti! C’è un matrimonio da organizzare. Vista la tua condizione, lo anticiperemo; farai credere al tuo sposo che il figlio che porti in grembo è il suo... e speriamo almeno in un maschio!».

Margherita era spossata dal dolore; i suoi grandi occhi verdi erano arrossati e gonfi. Improvvisamente cominciò a vedere tutto appannato e il mondo intorno a lei iniziò a girare; troppo debole per lottare ancora, svenne.

I quattro soldati che avevano combattuto contro il giovane sventurato erano spossati; il re fece cenno a Michele e ad Artur di ucciderli. Feriti e presi di sorpresa dai loro stessi compagni, caddero a terra facilmente.

«Bene!», disse Gregorio. «Quanto è accaduto stasera è un segreto reale: è bene non essere in tanti a conoscerlo». Infine si decise a tornare a palazzo.

Michele caricò la principessa priva di sensi sul suo cavallo e i tre uomini lasciarono quella spiaggia maledetta.


  1
Progetti per la piccola Costanza
  

Da quel terribile evento erano trascorsi quasi sette anni. Re Gregorio, di tanto in tanto, aveva fastidiosi incubi e si svegliava sudato e ansioso; il pessimo umore non lo abbandonava per tutta la giornata.

Quella mattina si sentiva particolarmente male. Si tirò su dal letto, mettendosi seduto e cercando di respirare.

Il matrimonio di sua figlia Margherita con il ricchissimo re Umberto gli aveva portato grandi vantaggi economici e politici. Alle nozze, nessuno si era accorto della gravidanza della figlia.

Certo, se fosse nato un maschio sarebbe stato meglio; tuttavia Gregorio aveva gestito quella scomoda situazione nel migliore dei modi e, nonostante la bambina fosse nata con un mese di anticipo, re Umberto non aveva mai avuto dubbi sulla sua paternità. La morte di Margherita al momento del parto aveva ridotto notevolmente le possibilità che Umberto scoprisse la verità. Ormai solo lui e i suoi fidati soldati, Michele e Artur, erano a conoscenza di quel segreto.

E allora perché era ancora tormentato dal passato? Gregorio non se lo sapeva spiegare. Nei suoi incubi vedeva Stefano, con il cuore sanguinante, che tornava dal regno dei morti per ucciderlo.

Gregorio cercò di scacciare quei brutti pensieri. Si alzò dal letto a fatica, poi afferrò la brocca sul comò e si lavò la faccia con l’acqua gelida. Era sempre stato di costituzione robusta, ma più gli anni passavano e più tendeva a ingrassare. I capelli, grigi e arruffati, si erano schiariti ulteriormente; il viso appariva ancora più vecchio e stanco di quanto non fosse. La faccia era talmente paffuta da nascondere il collo. Nel complesso, il suo aspetto era trasandato e goffo.

Quella mattina Gregorio doveva recarsi alla reggia del genero. Sua nipote aveva compiuto i sei anni ed era pronta per andare in clausura.

La direttrice del convento, suor Matilda, si sarebbe recata anch’ella al palazzo di Umberto per illustrare le dottrine ideologiche che sarebbero state utilizzate durante la crescita della principessina. Inoltre avrebbe espresso la richiesta per il compenso a lei spettante.

Per Umberto il denaro non era un problema. Tutti conoscevano la sua storia: lui non era un re di sangue puro, prima di essere proclamato sovrano era un semplice soldato del Papa. Era diventato re per merito: aveva scoperto un gravissimo misfatto.

Re Giacomo, sovrano di Valleran, era riuscito a rubare la corona del Papa. Quel gioiello aveva un valore inestimabile, era d’oro massiccio e completamente incastonato di gemme rosse, grosse come noci.

Durante una festa alla reggia di re Giacomo, intervenne il Papa in persona che accusò pubblicamente il sovrano del furto. Non si sa come, ma Umberto sapeva dove re Giacomo nascondeva la preziosa corona. Essa era nella sala da pranzo del castello, in uno scomparto segreto celato dietro un quadro.

Per ringraziarlo del servizio reso alla Chiesa, il Papa incoronò Umberto re di Valleran al posto del traditore.

Tutti i membri della famiglia traditrice vennero uccisi, in quello che fu un vero massacro.

Quella storia, accaduta circa dieci anni addietro, era a conoscenza di tutti; nessuno, però, si spiegava da dove provenisse l’immensa ricchezza di Umberto, e neanche Gregorio ne sapeva nulla.

Umberto non parlava mai dell’origine del proprio benessere economico, ma Gregorio era certo che gli era capitata una qualche straordinaria fortuna: re Giacomo non era tanto ricco.

Margherita era uscita dal convento pochi anni dopo l’incoronazione di Umberto e lui l’aveva chiesta in moglie ancor prima di vederla.

A quei pensieri Gregorio sorrise tra sé: il suo regno, il vasto reame di Asserlay, era smisuratamente ampio e godeva della considerazione di tutti i nobili.

L’unione di Valleran e Asserlay aveva reso i due sovrani potenti e rinomati nel mondo dell’aristocrazia.

Per un attimo l’attenzione di Gregorio si posò sulla moglie, che era ancora a letto.

Eleonora aveva cominciato a soffrire di depressione quando la figlia era stata mandata in convento; la situazione era peggiorata quando Margherita si era sposata con Umberto, morendo prematuramente pochi mesi dopo.

Gregorio la guardò: era la donna più inutile sulla faccia della terra. Nonostante fosse di dieci anni più giovane di lui, il suo viso aveva rughe evidenti; gli occhi, un tempo grandi e accesi, erano grigi e spenti, e i capelli erano diventati color argento. Era invecchiata precocemente.

Gregorio pensò che gli avesse fatto comodo sposarla: quell’enorme castello non sarebbe mai stato suo, altrimenti. Non le aveva mai voluto bene e in quel momento la disprezzava: cosa se ne fa un re di una moglie, quando può avere tutte le donne che vuole?

 

Qualche ora dopo, Gregorio entrò nello studio di re Umberto.

La stanza era piuttosto ampia: un lussuoso tappeto di pelle copriva parte del pavimento e al centro c’era una grande scrivania di legno pregiato. Le pareti erano tappezzate di magnifiche teste di animali: erano i trofei di caccia, di cui lui andava molto orgoglioso.

«Accomodati, caro Gregorio!», lo invitò Umberto. Era in piedi vicino alla finestra, vestito in modo elegante. La sua fisionomia, alta e mediamente robusta, gli dava un aspetto autoritario. Nonostante fosse vicino ai quarant’anni, aveva tutti i capelli neri: li portava legati in un codino che gli arrivava alle spalle. La barba, sempre nera, gli copriva il viso; gli occhi erano infossati e poco luminosi.

Poco dopo oltrepassò la porta dello studio anche una suora. Era una donna alta e dai lineamenti decisi: solo a guardarla incuteva una certa soggezione. I suoi occhi erano piccolissimi e di un nero acceso.

«Prego, suor Matilda!». Umberto la invitò a sedersi.

«Buongiorno», disse la suora, fredda. «Veniamo al dunque. Re Gregorio conosce già le regole del mio convento. Le bambine entrano all’età di sei anni ed escono dieci anni dopo: nessuna lettera, nessun contatto col mondo esterno. Il nostro intento è privarle di spirito di iniziativa, determinazione e coraggio: qualità decisamente fastidiose nelle giovani donne che hanno già un futuro prestabilito. Vantiamo un grande successo delle nostre dottrine: infatti, le ragazze uscite dal convento si sono sposate con i prescelti dai genitori senza creare alcun tipo di problema».

Gregorio pensò che con sua figlia quelle dottrine non fossero state proprio ottimali, giacché, appena uscita, si era innamorata di un soldato.

La suora, guardando proprio lui, continuò:

«Vostra figlia, ad esempio... lei aveva un carattere estremamente ribelle. È stato molto difficile gestirla; eppure, neanche un anno dopo essere tornata al castello, si è sposata con il qui presente e ricchissimo re Umberto. Un vero successo!».

Gregorio non poteva certo esporlo, ma il motivo del successo era stato il suo tempestivo intervento, nonché le rivelazioni di una serva ingrata. Se lui fosse arrivato tardi, i due innamorati avrebbero preso la via del mare e addio matrimonio.

Fu Umberto a distoglierlo dai suoi pensieri. Era anch’egli pensieroso e si accarezzava la barba.

«Mia figlia, la principessa Costanza, è un vero terremoto! A quanto dite ha la stessa indole della madre, ed è anche intelligente...», affermò guardando la suora. Il suo volto era demoralizzato.

«Non dovete preoccuparvi!», lo interruppe suor Matilda. «Uscirà come nuova! Parliamo, piuttosto, del mio compenso... voi siete molto ricco, non avrete problemi a fare un’ingente donazione...».

«Vi darò un baule con dieci lingotti d’oro all’arrivo della principessa e un altro uguale alla partenza», tagliò corto Umberto.

La suora lo squadrò con i suoi piccolissimi occhi neri:

«Vorrei vedere un lingotto».

Il re aprì il cassetto della scrivania e tirò fuori un grosso pezzo d’oro, poi glielo porse.

Matilda lo accarezzò: era liscio e levigato, più grande della sua mano e piuttosto pesante.

«Molto bene!», esclamò alzandosi. «Questo lo terrò come contributo per il viaggio affrontato per venire a rispondere alle vostre domande». Così dicendo si infilò il lingotto nella tasca nascosta tra le pieghe del vestito.

«Tenetevelo pure...», acconsentì Umberto, incurante, «...l’importante è che Costanza impari le buone maniere e che mi ubbidisca senza obiezioni. Il mio regno è vasto e potente: non posso permettermi una figlia fuori controllo», decretò, freddo.

«Non dubitate, Maestà. Aspetterò vostra figlia, e i lingotti, davanti alle mura del convento la prossima settimana». La suora si inchinò e uscì dallo studio.

Appena se ne fu andata, Gregorio si avvicinò al genero:

«Tua figlia è davvero così impertinente?».

«È impertinente e anche testarda, non ubbidisce mai a ciò che le si dice... ma perché non resti a pranzo? Vedrai con i tuoi occhi», lo invitò Umberto.

«Molto volentieri, mi è venuta proprio una gran fame!», rispose lui, contento.

I due nobili si diressero verso la sala da pranzo che si trovava nell’ala destra del castello. Entrarono in una stanza larga e spaziosa al centro della quale c’era un tavolo di legno finemente lavorato, così lungo che poteva accogliere una trentina di persone. Al margine della stanza c’era un enorme camino. Alle pareti, ad arricchire l’arredamento, erano appesi maestosi quadri di nobili personaggi.

Contrastando con la sontuosità della sala, il posto d’onore, ossia quello sopra l’imponente camino, era occupato da una piccola e quasi insignificante testa di cervo. Essa era collocata su una grande tavola di legno che, forse, voleva dargli un tono più maestoso.

I due sovrani si accomodarono nella parte del tavolo più lontana dall’ingresso, quella vicina al camino, e Umberto suonò un campanellino.

Subito una serva si avvicinò a lui. Era una donna con freddi occhi azzurri; i capelli biondi erano raccolti sotto un copricapo marroncino, coordinato con il vestito. Dai lineamenti del viso si capiva che aveva circa trentacinque anni.

«Ditemi, Vostra Maestà!».

«Vai a chiamare mia figlia Costanza, pranzerà con noi! E fai servire il banchetto!», ordinò Umberto.

«Subito, Maestà!». La serva fece un rapido inchino e uscì velocemente dalla stanza.

Poco dopo una bambina entrò nella sala: era accompagnata da una giovane ragazza dai ricci capelli rossi.

La piccola era davvero graziosa: lunghi capelli dorati e pieni di boccoli le scendevano morbidi sulle spalle; la carnagione era molto abbronzata, quasi olivastra. Gli occhi rapivano lo sguardo di chiunque. Erano grandissimi, verde smeraldo all’interno e azzurrino sfumato ai margini, incorniciati da lunghe e folte ciglia. Indossava un vestito verde acqua con le maniche a tre quarti, impreziosito con pizzo bianco e pietre blu.

Umberto fece cenno alla donna di andarsene e ordinò alla figlia:

«Vieni avanti, Costanza! Saluta il re tuo nonno e il re tuo padre, poi accomodati a tavola».

La bambina fece qualche passo verso di loro, si inchinò in modo aggraziato ed esclamò sorridendo:

«Buongiorno a tutti!!». La sua vocetta squillante riecheggiò nella stanza.

Davanti alla sua euforia Umberto sbatté il pugno sul tavolo e la guardò, arrabbiato:

«Non è questo il modo di salutare! Quante volte devo dirtelo?». La sua voce era intrisa di odio.

Lei, delusa, provò a spiegare le sue ragioni:

«Sì, ma...».

«Niente scuse! Devi ubbidire e basta!», urlò lui, categorico.

Costanza trattenne a stento uno sbuffo, strinse le labbra rosee e fece un profondo sospiro. Poi, notando che il re si stava spazientendo, ripeté l’inchino:

«Buongiorno nonno, buongiorno padre».

«Bene! Ora puoi sederti a tavola». Umberto le indicò il suo posto, compiaciuto.

La bambina, approfittando dell’attimo di distrazione del padre, affermò con foga:

«Sì, ma con la parola tutti eravate già compresi entrambi!». Lo aveva detto tutto d’un fiato, per evitare di essere interrotta. Felice di essere riuscita a parlare, osservava ambedue i sovrani con lo sguardo fiero, poco intimorito e un po’ furbetto.

Gregorio scoppiò a ridere: la piccola voleva avere l’ultima parola.

«Sei molto peggio di tua madre!», le disse, contorcendosi dalle risate.

Un’ombra di tristezza velò il viso della bambina; guardava il nonno e il padre ridere sguaiatamente, seria e immobile. La mamma le mancava moltissimo: non l’aveva mai conosciuta, ma se l’era immaginata bella, buona e con la voce angelica.

«Dai, siediti!». Umberto la riportò alla realtà.

La bambina si accomodò al suo posto, in silenzio.

In quel momento arrivarono i servi con il pranzo e posarono le pietanze sul tavolo.

Gregorio iniziò a mangiare la sua zuppa e, intanto, incalzò la nipote:

«Allora, la prossima settimana parti per il convento! Sei contenta?». La sua voce era terribilmente smielata.

«Non ci voglio andare in quel posto», dichiarò lei, mettendo il broncio.

«Come?!», sbottò lui. Sorseggiava rumorosamente la zuppa. «C’è andata anche tua madre quando aveva la tua età!».

Costanza incrociò le braccia, seria:

«Non ci voleva mica andare: l’avrai obbligata tu, come fa mio padre con me!». Il suo visetto, vispo e accusatore, non si abbassò davanti allo sguardo irritato del nonno.

I due sovrani si fissarono per un istante senza parlare.

Gregorio aveva perso la sua aria baldanzosa:

«Ti servono proprio dieci anni di clausura, e speriamo che bastino!».

Per qualche minuto tutti si misero a mangiare in silenzio, poi l’attenzione di Gregorio fu catturata dalla piccola testa di cervo collocata sopra il camino.

«Non capisco perché tu abbia messo la testa di quell’animale insignificante sul posto d’onore... ne hai di più grandi e maestose!», affermò, contrariato.

«È il mio portafortuna: il simbolo della mia ricchezza!», rispose Umberto.

«L’insignificante testa di un cervo, simbolo della tua smisurata ricchezza?!». Gregorio ricominciò a sghignazzare. «Non farmi ridere, caro genero».

Costanza guardò dispiaciuta quel povero cervo: uccidere animali per divertimento era terribile.

 

2
L’entrata in convento
 
 

La settimana successiva tutto era pronto per la partenza della principessina.

Il cocchiere, un uomo minuto dalla folta barba bionda e dai capelli arruffati, aspettava la bambina vicino alla carrozza, nel cortile del palazzo.

Sopra il cocchio era stato legato un baule, contenente i dieci lingotti d’oro per suor Matilda.

Dalla finestra del suo studio, re Umberto vide arrivare due uomini a cavallo. Erano Michele e Artur, i fedeli soldati del suocero. Gregorio riponeva in loro una completa fiducia e, da quando i regni si erano uniti, le due guardie svolgevano servizio anche a Valleran.

Umberto suonò un campanellino e una serva si fece avanti: era la donna bionda dagli occhi azzurri.

Emma, così si chiamava, era a servizio di Umberto da quando lui si era impossessato del regno ed era sempre stata impeccabile.

La donna si inchinò al cospetto del re:

«Ditemi, Vostra Maestà!».

«È pronta la principessa? Deve partire!». Lo sguardo di Umberto era autoritario.

«È con la sua dama di compagnia: si sta preparando».

«Vai a chiamarla! La carrozza la attende!».

Emma uscì velocemente dalla stanza per eseguire l’ordine, mentre Umberto si recò in cortile.

Alla vista del re, il soldato con gli occhi parzialmente coperti dai capelli color carota lo salutò con un inchino.

Anche Artur, l’uomo calvo e dal viso sfregiato, rese omaggio al sovrano.

Umberto rispose con un incurante gesto della mano.

Altri quattro soldati, intanto, si stavano unendo al gruppo per la partenza.

Finalmente la principessina varcò l’uscio, accompagnata dalla sua dama di compagnia. Aveva un vestito arancione e un mantello grigio con il cappuccio. I capelli erano raccolti in una treccia arrotolata sul capo.

Michele la osservò attentamente: assomigliava tantissimo al suo amico Stefano; il viso dai lineamenti delicati glielo ricordava molto.

«Era ora!», esclamò Umberto, spazientito. «Forza, sali in carrozza!».

Costanza fece qualche passo incerto verso il cocchio, alzando il vestito per non inciampare. Sembrava indecisa sul da farsi e, per un attimo, incrociò lo sguardo di Michele.

Il soldato le vide i grandissimi occhi verdi e riconobbe quelli della madre. I suoi genitori erano molto diversi fra loro e lei sembrava aver preso il meglio di entrambi.

La voce di Umberto riecheggiò nuovamente:

«Costanza, veloce! Con questi tempi, stasera sarai ancora qui...».

La ragazza dai ricci capelli rossi prese per mano la bambina e la aiutò a salire sulla carrozza.

La piccola si mise a sedere sulla panca e la dama di compagnia si accomodò accanto a lei.

Una volta che Costanza fu salita, re Umberto si avvicinò a Michele.

«Mi raccomando, assicurati che entri in convento. Consegnala personalmente a suor Matilda», gli sussurrò.

«Non dubitate, Sire, sarà fatto», promise lui.

La carrozza, protetta dai sei soldati, cominciò a muoversi e Umberto la guardò oltrepassare i cancelli della tenuta.

«Finalmente dieci anni di pace!», constatò fra sé e sé. Si accarezzò le mani, impreziosite da grandi anelli.

 

La carrozza avanzava nel bosco. La principessina era vicina al finestrino e guardava fuori.

Era il mese di maggio ed era una giornata soleggiata, anche se gli alberi, con le loro alte ed estese chiome, nascondevano buona parte della luce del sole.

Il bosco aveva tantissime sfumature colorate e la bambina ne era affascinata. Si sporse dal finestrino per vedere meglio gli uccellini, ma la ragazza vicino a lei la richiamò:

«Principessina, non sporgetevi... potreste cadere!».

A quel richiamo Costanza guardò la ragazza e sospirò, imbronciata:

«Agnese, non voglio andare in convento».

La ragazza le sorrise:

«Magari non è tanto brutto come lo immaginate...».

«Magari è anche peggio...».

Davanti al suo sconforto Agnese si avvicinò a lei e le aggiustò un ciuffo di capelli sfuggito all’acconciatura.

«Quando avrete la mia età, uscirete dal convento e ci rivedremo; se vorrete, io sarò ancora la vostra dama di compagnia», le sussurrò dolcemente.

Costanza non era convinta; si sporse ancora dal finestrino, con l’intenzione di guardare le ruote della carrozza: giravano velocemente e facevano scricchiolare le foglie e i rametti sul terreno.

All’ennesimo richiamo di Agnese la bambina alzò lo sguardo, ma la sua attenzione fu rapita da alcuni uomini a cavallo che avanzavano veloci verso di loro.

Erano sei e i loro visi erano nascosti da maschere nere.

«Banditi!!».

L’urlo di un soldato riecheggiò nell’aria e la carrozza si bloccò all’improvviso.

I cavalli impennarono e Costanza si sbilanciò, cadendo in avanti; si rialzò subito, curiosa di guardare fuori.

I soldati si disposero intorno alla carrozza e si sentì il rumore delle spade sguainate.

Agnese era spaventata.

«Nascondetevi sotto la panca con me!», consigliò alla piccola. Costanza non la ascoltò: era troppo curiosa di osservare quanto accadeva.

Il soldato dai capelli color carota ordinò:

«Dobbiamo difendere la carrozza! Ci attaccano per i lingotti!».

In un attimo i banditi furono addosso ai soldati.

C’era un baccano tremendo: le spade si incrociavano le une con le altre e i cavalli, agitati, nitrivano rumorosamente.

Artur stava combattendo contro un uomo dal fisico muscoloso: aveva circa trentacinque anni e la sua forza era eccezionale.

Quell’uomo misterioso aveva le braccia coperte di cicatrici e occhi neri come la notte; un orecchino circolare gli pendeva dal lobo sinistro. Era sicuramente il capo.

Improvvisamente un altro bandito, approfittando del varco che lui e i suoi compagni erano riusciti a creare, aprì lo sportello della carrozza.

Costanza, colta all’improvviso, urlò spaventata, facendo un balzo all’indietro.

L’uomo, ancora sul suo cavallo, allungò le braccia abbronzate per afferrare la bambina e ci riuscì, ma lei gridò e cercò di liberarsi. Quell’uomo, di cui si intravedevano solo gli occhi verdi e i capelli castano scuro, ebbe paura di farle male e la lasciò immediatamente.

Costanza, agile, uscì dall’altra parte del cocchio e iniziò a correre veloce verso il bosco. Il suo vestito era troppo ingombrante e, nonostante cercasse di tirarlo su con le mani, inciampò e cadde a terra. D’istinto si voltò per vedere com’era la situazione.

Il bandito che poco prima aveva cercato di afferrarla sulla carrozza era già dietro di lei, la inseguiva in groppa al suo cavallo. Quando le fu appresso lasciò le redini del destriero, tenendosi aggrappato all’animale con la sola forza delle gambe; con un’acrobazia straordinaria si lasciò scivolare da un lato fino a strisciare terra, tirò su di peso la principessa e si ristabilì con lei sul cavallo, correndo via nel bosco.

Il capitano Michele, visto l’accaduto, si precipitò al galoppo dietro di lui. Anche Artur avrebbe voluto inseguirlo, ma il capo dei banditi non gli dava tregua e lo costringeva a difendersi dai suoi repentini attacchi.

Nel frattempo la giovane ragazza dai ricci capelli rossi era nascosta sotto la panca della carrozza. Lo sportello che dava verso il bosco era rimasto aperto, così si fece coraggio e provò a scappare, ma fu volontariamente accoltellata da un bandito e stramazzò al suolo.

Il combattimento durò ancora parecchio tempo, le forze sembravano eguagliarsi e nessuno era disposto a cedere.

All’improvviso, dal fitto del bosco, riapparve il capitano Michele con la bambina avvolta nel mantello grigio.

Vedendoli, il capo dei banditi urlò:

«Ritirata!!».

A quel grido i banditi rimasti scapparono, inoltrandosi con foga nel bosco.

Artur raggiunse il capitano:

«Dobbiamo inseguirli?».

«No, abbiamo i lingotti e la principessina, sbrighiamoci ad arrivare al convento».

«Che fine ha fatto il bandito che ha rapito la bambina?», domandò Artur.

«L’ho ucciso come un cane in mezzo al bosco! I lupi mangeranno il suo corpo!», rispose Michele, freddo. «Ora andiamo!».

Il capitano si avvicinò alla carrozza e ci mise dentro la bambina incappucciata, poi guardò il corpo senza vita di Agnese. Si incupì:

«Che cosa è successo?».                                                            

«È stata accoltellata senza pietà... strano che se la siano presa con lei, non ne capisco il motivo...», constatò un soldato.

«Ormai è andata così», concluse Michele. «Rimettiamoci in marcia. Il convento è ancora lontano». Diede una rapida occhiata al cocchiere: era spaventato ma vivo.

 

Nell’insieme il convento dava sfoggio di ricchezza e imponenza: era una struttura molto ampia, protetta da alte mura.

La carrozza si fermò davanti all’ingresso.

Il capitano smontò da cavallo e aprì lo sportello. La bambina era tutta rannicchiata in un angolo e non si era ancora tolta il cappuccio dalla testa.

«Coraggio!», le disse Michele. «È ora di entrare!». Le porse la mano per aiutarla a scendere.

La piccola prese la mano del soldato e scese lentamente dal cocchio.

Dal portone del convento, intanto, erano uscite due suore che andarono loro incontro.

Michele le conosceva entrambe. Una era suor Matilda, l’avida responsabile del convento, mentre l’altra, una donna piccola e dal viso dolce, era suor Anna. Le aveva incontrate quando lui e Stefano erano giunti lì per ricondurre a palazzo la principessa Margherita dopo i dieci anni di clausura. Si ricordava la freddezza di suor Matilda contrapposta alla tenerezza di suor Anna.

«Siete in ritardo!», sentenziò suor Matilda.

«Siamo stati aggrediti dai banditi!», si giustificò Michele.

«Oh, Santo cielo!», esclamò l’avida suora. «Hanno rubato i miei lingotti?».

«No, non ci sono riusciti».

Suor Anna si inginocchiò all’altezza della bambina:

«Tu stai bene?».

Lei annuì soltanto.

L’attenzione di suor Matilda, invece, fu attratta dal baule sopra la carrozza: dovevano essere lì i lingotti.

Michele comprese i pensieri della suora e ordinò a un soldato di prendere il baule.

Suor Matilda era bramosa:

«Immagino che non vi dispiaccia se controllo che i lingotti ci siano tutti».

«Fate pure».

Il soldato appoggiò il baule davanti a lei.

La donna lo aprì e contò i lingotti tra sé e sé.

«Bene! Ci sono tutti!», esclamò infine, contenta. «Salutate re Umberto da parte mia. Ci rivedremo fra dieci anni!».

Michele annuì.

La suora afferrò il baule con entrambe le mani: voleva sollevarlo da sola per portarlo dentro il convento. Tuttavia esso era troppo pesante e, suo malgrado, dovette farsi aiutare da un soldato.

Suor Anna, che aveva preso per mano la bambina, li seguì esasperata: tanta bramosia di ricchezza non era certo la strada indicata da Dio.

Appena il soldato fu di ritorno, il portone si chiuse lentamente.

 

3
Finalmente insieme
 
 

Oltrepassato il bosco, la vista panoramica era mozzafiato.

La pianura era smisuratamente estesa, circondata da alte montagne.

Un piccolo ruscello d’acqua limpida attraversava la prateria e, più in alto, una piccola cascata rendeva l’insieme ancora più incantevole.

Al centro di quel paesaggio spettacolare c’era un capanno di legno, ampio e malridotto. Forse un tempo era stato rifugio di cacciatori.

Sei uomini a cavallo stavano attraversando la pianura; uno di loro portava con sé una bambina vestita con abiti poveri.

La piccola si era voltata spesso a guardare l’uomo che la trasportava: le sembrava strano che potesse avere la barba dorata e i capelli castano scuro, quei colori facevano un buffo contrasto.

Lui si era limitato soltanto a sorriderle.

La bambina ripensava all’accaduto e non sapeva darsi una spiegazione plausibile. Quando quell’uomo l’aveva raccolta da terra, dopo essere inciampata, avevano galoppato veloci nel fitto del bosco, inseguiti da un soldato.

Poi, all’improvviso, si erano trovati di fronte una donna con una ragazzina della sua stessa età. Erano persone vestite poveramente: la signora sembrava agitata e faceva mille raccomandazioni alla sua bambina. La piccola ascoltava in silenzio: aveva un’acconciatura esattamente uguale alla sua, anche se i capelli erano più scuri.

Il bandito si era tolto la maschera nera e aveva aiutato Costanza a scendere da cavallo; poi le aveva detto di scambiare i vestiti con l’altra bambina, la quale si stava già sfilando i suoi.

Lei non sapeva perché avesse ascoltato quell’uomo senza fare obiezioni, non lo aveva mai visto prima; eppure il suo viso non sembrava cattivo, anzi, appariva una persona gentile e dai modi simpatici.

Quando era arrivato il soldato dai capelli color carota, la donna le stava aiutando a scambiare i vestiti.

Quel soldato, che li aveva inseguiti per il bosco senza tregua, giunto innanzi a loro, anziché sguainare la spada, era sceso da cavallo e si era diretto dal bandito con un grande sorriso sul volto.

I due si erano abbracciati a lungo, sotto gli occhi stupiti di Costanza.

«Buona fortuna, amico mio!», aveva detto il soldato al bandito.

«Grazie di tutto», aveva risposto l’altro.

La donna, intanto, aveva abbracciato e salutato la sua bambina vestita da principessa. Poi il soldato aveva caricato la piccola sul suo cavallo, coprendole il volto con il mantello grigio.

Costanza ripensava a quello strano soldato dai capelli color carota. Prima di andarsene, si era fermato di fronte a lei con un sorriso.

«Addio, piccola...», le aveva parlato come se la conoscesse, «...ti auguro una vita felice!». Poi se n’era andato nella stessa direzione dalla quale era venuto, portandosi via l’altra bambina.

Il bandito aveva dato un sacchettino marrone alla donna.

«Non voglio il vostro denaro...», aveva risposto lei, «...ho fatto questo per mia figlia: sarà principessa e non patirà la fame come i suoi fratelli...».

«Prendete questo sacchettino per i vostri figli... non vi renderà ricchi, ma almeno avrete da vivere più serenamente...», aveva insistito l’uomo.

Così la donna aveva afferrato il sacchettino senza aggiungere altro e se n’era andata.

Costanza ricordava la gentilezza con cui il bandito l’aveva aiutata a risalire sul cavallo; infine erano partiti al galoppo.

Gli altri cinque uomini li stavano aspettando poco più avanti.

Riunitosi, il gruppo aveva proseguito a cavallo fino ai confini del bosco e in quel momento si stava dirigendo verso il capanno al centro della vastissima prateria.

Giunti davanti al vecchio e malridotto rifugio, i banditi smontarono dai loro cavalli.

L’uomo che aveva trasportato la bambina la aiutò a scendere. Prendendola in braccio la guardò intensamente negli occhi e le sorrise. Non gli sembrava vero di avere sua figlia con sé: era la bambina più bella che esistesse sulla terra.

Anche lei lo guardava, più curiosa che spaventata. Tante domande le frullavano in testa.

L’uomo intuì i suoi pensieri.

«Aspetta solo un attimo...», le disse con voce calma e rassicurante, «...ti spiegherò tutto fra poco». Le fece l’occhiolino. Poi si girò verso i suoi compagni. Guardò negli occhi neri l’uomo dai lunghi capelli corvini. Quegli occhi che sapevano incutere tanto terrore, davanti a quel padre che aveva finalmente ritrovato la figlia, erano lucidi.

«Marlok! Perché non resti con noi? Di spazio ce n’è tanto!», lo invitò.

Lui scosse la testa:

«No, Ivan. Devo girare per i mari e accumulare molte ricchezze... non è ancora tempo che ritorni sulla terraferma!».

Ivan annuì. Provava un profondo rispetto per il suo amico e, sebbene non avesse mai saputo molto di lui e del suo passato, lo riteneva un uomo d’onore.

«Grazie per avermi salvato la vita!», gli disse. Le sue parole erano velate di commozione. Non si riferiva solo alla vita fisica: dopo aver perso Margherita, vivere senza la figlia sarebbe stato peggiore della morte.

Lui capì cosa intendeva e annuì.

I due si abbracciarono.

«Addio, Marlok». Ivan lo osservò mentre risaliva in groppa al cavallo con un balzo.

Lui si tolse il cappello in segno di saluto:

«Non addio, amico mio, arrivederci!». In un attimo fece girare il cavallo e partì a gran velocità verso il bosco, seguìto dai suoi compagni.

Ivan li guardò allontanarsi velocemente, finché non scomparvero dentro il bosco. Aveva il cuore colmo di gratitudine. Finalmente si voltò verso la bambina, che lo stava ancora osservando.

«Vieni!», le disse gentilmente, porgendole la mano. «Entriamo».

Costanza lo guardò per qualche istante, pensierosa; era indecisa se fidarsi o no. Il viso di quell’uomo le sembrò simpatico, così allungò la manina verso la sua e se la sentì prendere saldamente.

Ivan sorrideva: era molto felice.

Padre e figlia varcarono insieme l’uscio del capanno. L’interno era piuttosto instabile, le travi non erano fissate bene e il tetto era bucato.

La bambina si guardò intorno. In fondo alla stanza c’era un camino e, al suo fianco, una scala di legno portava al piano superiore. In un angolo, vicino al focolare, c’erano due sedie, sulle quali erano appoggiati diversi oggetti.

Costanza si avvicinò per guardare meglio. C’erano delle coperte pesanti, alcuni vestiti della sua misura, due paia di scarpe e un pettine. La sua attenzione, però, fu catturata da una bambola di pezza, che prese in mano. La guardò attentamente: aveva capelli di stoffa gialla, il naso era un bottone, occhi e bocca erano disegnati e il vestitino aveva una fantasia a fiori.

Ivan, intanto, si era avvicinato a lei:

«Ho preso ancora poche cose... ma mi procurerò tutto ciò che ti servirà!». Era un po’ imbarazzato e, dopo un attimo di silenzio, aggiunse: «Vieni! Ti faccio vedere il piano di sopra!».

La bambina lo seguì.

«Fai attenzione alle scale...», le disse lui in tono protettivo, «...sono molto vecchie e scricchiolano...».

Costanza salì i gradini con cautela; aveva con sé la bambola di pezza.

Al piano superiore c’erano due stanze completamente vuote, e dalle ampie finestre si vedeva un panorama spettacolare.

«Di spazio ce n’è tanto!», annunciò Ivan, orgoglioso. «Devo aggiustare un po’ tutto e renderlo nuovo!».

Lei si guardò intorno.

«Puoi scegliere la stanza che preferisci!», le disse lui. «Ti costruirò un letto grande e robusto e avrai un ampio armadio dove mettere i vestiti. Magari potrei fabbricare anche una sedia a dondolo!», esclamò, gioioso. Studiava quello spazio, pensando a come sistemare l’arredamento.

Costanza lo osservava e il suo entusiasmo la divertiva. Tuttavia aveva due domande che le frullavano in testa da parecchio tempo e non riuscì più a trattenerle.

«Chi sei tu? Perché mi hai portata qui?».

Ivan lasciò perdere tutti i pensieri sull’arredamento e si concentrò su di lei. Aveva immaginato tante volte di rispondere a quelle domande e finalmente era giunto il momento. Sentì tuttavia un nodo alla gola: l’emozione gli faceva brillare gli occhi e tremare le mani. Si inginocchiò davanti alla figlia per essere alla sua altezza.

«Io... ero un amico della tua mamma...», rispose. Non riusciva a pronunciare la parola padre.

A quelle parole Costanza sgranò gli occhi e il suo viso si illuminò.

«Tu conoscevi la mia mamma?!», esclamò, stupita.

Lui era rapito dal viso della bambina e, osservando il lampo di meraviglia che aveva attraversato i suoi grandi occhi smeraldo, si sentì invadere dalla tenerezza.

«Sì...», rispose commosso, «...la conoscevo molto bene... le ho promesso che non saresti andata in convento... a lei quel posto non piaceva per niente... per questo ti ho portata qui».

«Lo sapevo che non ci voleva andare neanche lei!», esclamò Costanza, esultante.

Ivan sorrise.

Un attimo dopo l’euforia sparì dal volto della bambina.

«Puoi raccontarmi qualcosa della mia mamma?», chiese, timidamente.

Ivan era sempre più emozionato: sua figlia era così piccola e chissà quanto le era mancata la madre in quegli anni. Sarebbero stati davvero felici tutti e tre insieme.

«Era bellissima!», le raccontò, riportando alla memoria la sua immagine. «La sua voce era dolce e melodiosa, sembrava un angelo... quando rideva, il viso si illuminava e gli occhi le brillavano, proprio come i tuoi».

A quelle immagini Costanza sorrise, felice, e lui continuò:

«Era molto coraggiosa! Ti ha amata dal primo istante in cui ha saputo che saresti arrivata. Sai? Lei lo sentiva che eri una bambina... il nome che aveva scelto per te è Celeste!».

Costanza aveva ascoltato ogni singola parola uscita dalla bocca di quell’uomo: nessuno le aveva mai parlato della sua mamma in quel modo. Quelle frasi sarebbero rimaste impresse nel suo cuore per sempre.

«Sono contenta di non essere andata in convento!», dichiarò, convinta.

Ivan prese le sue manine, stringendole dolcemente.

«Re Umberto non si accorgerà della tua scomparsa, però dobbiamo essere prudenti; dovrai cambiare nome, anche io ne ho uno nuovo e, soprattutto, non dovrai rivelare a nessuno che sei la principessa».

La piccola ci pensò un attimo, poi i suoi occhi brillarono:

«Vorrei chiamarmi Celeste!».

«È un nome bellissimo... e, guardandoti bene, direi che ti calza proprio a pennello», le sussurrò Ivan, sorridendo.

Anche lei sorrise: le piaceva quel nome, molto più dell’altro e poi lo aveva scelto la sua mamma.

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